Minerva ne era la dea. La responsabile. In fondo, da dea, la poltrona non era spiacevole. Minerva era una creatura eccezionale. Una dea. Inarrivabile. Responsabile della saggezza, quindi della giustizia. Minerva, da adulta, pensava a se stessa quand’era bambina. Il suo destino era già stato deciso dagli altri. Era cresciuta già vecchia. Anche quando giocava. Come giocattolo le davano sempre quella cosa tremenda, la bilancia. Un oggetto che non le piaceva. Era freddo. Senza colori, senza fantasia. Pretendevano che lei pesasse sui piatti anche le bambole. Grasse. Non grasse. Capellute. Calve. E desse il responso. Ma che ‘maroni’! Per Minerva bambina una bambola poteva sembrare più simpatica dell’altra, più buona, avrebbe voluto scegliere col proprio cuore, ad intuito. No. Non era permesso. L’intuito non poteva bastare. Bisognava valutare di che consistenza fosse il vestito, quale fosse il valore degli ornamenti. Anche chi le avesse donato la bambola: le conoscenze sono importanti. Poi, memorizzare, descrivere minuziosamente, infine pesare. Da bambina Minerva non era riuscita a fare amicizia con le altre bambine, piccole dee come lei. Le sue coetanee le contestavano il ruolo che lei era destinata ad avere. La giustizia era una cosa molto importante, amministrarla conferiva un grande prestigio; in fondo, un po’ troppo per una femmina, come lo erano loro, anche se dee. La saggezza avrebbe dovuto bastarle, non era necessario confonderla con la giustizia: meglio un maschio, uno che non guardasse troppo per il sottile. D’altra parte, il gran capo all’Olimpo, il D.G., aveva deciso così: bisognava semplificare, saggezza, grazia e giustizia si demandavano ad una sola divinità. Da grandicella, per Minerva il discorso con gli uomini era divenuto ancora più complicato. All’Olimpo, il quartiere residenziale delle divinità, i giovani dei si trovavano in aperta rivalità con una ragazza ritenuta troppo ambiziosa. Minerva, donna e dea, povera diavola, alla fine era sola. Ogni tanto faceva sogni un po’ strani. Sognava creature dotate di ali; non come Icaro. Che aveva sbagliato, aveva ecceduto nell’immodestia, quindi aveva terminato il suo volo nel mare. Minerva sognava angeli molto diversi, asessuati, creature che le ali le tenevano in tasca. Angeli nel pensiero. Angeli nella dedizione a tutte le altre creature. Mmm. Minerva sapeva che le sue fantasie erano inenarrabili agli altri dei, autorizzati a decidere della vita di tutti. Degli stessi colleghi, se cadevano in disgrazia, e degli esseri umani, povere piccole cose, rispetto a loro, agli dei. Da adulta, dopo aver lavorato parecchio e non sempre in poltrona, Minerva era stanca. Ne aveva parlato al gran capo, gli aveva confessato le sue sofferenze, i suoi dubbi, soprattutto verso gli dei; non faceva la scena per ottenere privilegi maggiori…si sentiva davvero demotivata! Egli ne aveva riso, poi si era arrabbiato e con voce tonante aveva pensionato Minerva, l’aveva esodata pro tempore. Molto deluso, il D. G. aveva separato i due ministeri, grazia e giustizia ad un uomo, a lei rimaneva come ‘cadeau’ la saggezza, così come si addice a una femmina, donna o dea. Una meschinità; Minerva l’aveva sempre saputo che non sarebbe stato possibile amministrare la vera giustizia, completa, in un quartiere in cui tutti facevano i comodi loro, non ammettevano la minima manchevolezza: erano dei… Alla fine Minerva aveva accettato le dimissioni coatte rimanendo comunque una dea, paladina emerita della giustizia e depositaria della saggezza. Grandi festeggiamenti al nuovo arrivato, un semidio, nuovo protetto del capo, il Direttore Generale. Minerva aveva deciso di vivere in modo modesto. Era uscita dal quartiere di lusso, abitava per conto proprio, si faceva la spesa, accudiva l’abitazione. Minerva era abbastanza serena, leggeva i classici, si era fatta moltissime amiche ed aveva trovato un compagno, un semplice uomo. Quello era il periodo migliore della sua vita. Era libera di pensare con la propria testa e di decidere con l’intuito e col cuore. Purtroppo, gli dei, i colleghi di un tempo, soddisfatti per la sua estromissione, erano venuti a sapere che Minerva era felice. Eh, no, non va bene, Minerva era e rimane una presuntuosa, bisogna farle piegare la testa. Che è che non è, il compagno di Minerva scompare, è introvabile. Minerva lo cerca dovunque, si dispera, si rassegna… e riflette. Sono loro, sempre loro, deve essere andata così. Le vendette non servono. Lei è rimasta la depositaria della saggezza, emerita paladina della giustizia. Deve reagire, trovarne la forza. Quindi, Minerva si ripaluda da dea e da ministra, poi risale al quartiere Olimpo, a sorpresa. In mezzo al banchetto, raggiante, determinata, sfida il gran capo, D.G. Nel silenzio, Minerva chiama al suo fianco il semidio, protetto del capo. Egli, affascinato, intimorito, si inchina, ed insieme saggezza grazia e giustizia decretano sentenze e condanne. Il gran capo capisce l’antifona, la apprezza, è contento, si alza e stringe la mano a Minerva. Da pari a pari. Bentornata! Era ora! Nel frattempo, il cibo scompare e gli eterni impuniti presenti al banchetto sono sbiancati in altrettante statue di sale. In fondo al salone, dal nulla, si materializzano tante figure, di uomini e donne; sorridono. Davanti a tutte, una figura di uomo si avvicina alla dea con la mano protesa, affettuosa… Minerva è davvero felice, il D.G. e il semidio invitano tutti i presenti ad un rinnovato banchetto, frugale, in serenità. Prima, insieme, i convenuti raccolgono il sale da terra: gettato, sarebbe uno spreco. In fondo, quegli impuniti, per una volta, potranno servire.
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