C’era voluto molto tempo prima che Speranza riuscisse a decidere di salire sul treno. Cioè, a ritornare nella stazione di quel paese in cui era forzata a restare. Dalle circostanze. Un tempo, il paesino, bello e ben ubicato nel contesto abitativo del luogo, era stato scelto per costruire una casa che si intendeva considerare il porto definitivo. Sperè, a dire il vero, era nata e cresciuta in città, ma  per compiacere il marito che era nativo del posto, aveva coinvolto i suoi genitori a sostenere in soldoni sonanti il progetto. Che progetto! Una casa che costituisse l’approdo per frequentarsi, restare uniti a condividere il quotidiano. Una faticaccia, ma in un primo momento pareva ne fosse valsa la pena. In un secondo momento, confidando nei familiari rimasti, credendo di agire per il bene comune, Speranza aveva compiuto il volo di Icaro. Cioè, aveva speso tutti i soldoni ereditati dai suoi genitori per ristrutturare la casa. La donna voleva  dividerla in due villini, in verticale: se non fosse servito alla famigliola, l’affitto di uno dei due avrebbe consentito di pagare le spese vive di mantenimento. In corso d’opera, il marito, che, come era solito fare, si era assunto il compito di dirigere il tutto, aveva fatto cambiare il progetto. Così la casa era rimasta unica, grande, fin troppo. Poi si era verificata una girandola di avvenimenti ingovernabili, almeno da lei, e Speranza si era ritrovata a vivere sola in quella stupida casa. Costosa, e deserta. Che beffa! Sperè aveva attribuito ad altre persone i propri valori di affetto e famiglia,  ed aveva sbagliato. Era stata un’ingenua. Tant’è, era gioco forza  prenderne atto e cercare di stare a galla. Da sola. Completamente da sola. Anche quella era una storia ben strana! Tragica e buffa. Cioè. Mica tanto. Una tragedia per lei. Per chi aveva deciso così, ormai Speranza non trovava parole.  Mai una remora, una bilancia su cui soppesare gli errori reciproci, ritrovare un minimo dialogo almeno civile. Incredibile! Sperè aveva trascorso la vita, profuso a piene mani per la cosiddetta famiglia, ingoiato una quantità spaventosa di rospi, per finire tacciata al minimo  di ‘tradimento’, di ‘opportunismo’?!  Prima  la sofferenza, la ribellione, l’incredulità,  davanti alle menzogne, all’imbroglio. Poi, la rassegnazione. Anche i fili d’erba, si fa per dire, possiedono la dignità, quindi Speranza cercava di sopravvivere. Ma. C’erano tanti tabù. Uno era appunto quello di decidersi a riprendere il treno locale per recarsi a Milano. Un tempo, Speranza ci andava spesso, in macchina o in treno, poi la girandola degli avvenimenti l’aveva sepolta viva in quella casa. Bisognava ritrovare la forza di muoversi, di riascoltare l’annuncio Cadorna-Laveno. C’era ancora qualcuno a Milano che poteva incontrare. Al ritorno, l’unica preoccupazione era di non addormentarsi, magari finendo a Laveno. Laveno-Veleno. Un tempo, Sperè saliva sul treno insieme alla figlioletta, che storpiava Laveno in Veleno. Ecco, quello era un altro tabù. Sperè si era trovata bene nella bella Milano, con la sua amica. In futuro Speranza doveva spezzare il tabù  e recarsi a Laveno-Veleno, col treno, in tranquillità, anche sola com’era…  Cadorna è una piazza della grande Milano. Laveno è un bellissimo luogo sul lago Maggiore. Veleno è  solo il ricordo di un’assonanza, un tempo gradita. Parola profetica? Casualità? Un colpo deciso di forbice, e il veleno scompare. Speranza, significa Amore.