Penelope passeggia svogliata, la solitudine in mezzo alla gente non è più di suo gusto, non ora, non d’inverno, col buio che scende troppo presto e ruba la vista dei monti e del mare. La ragazza si trova all’inizio del Quai des Etats Units, ha lasciato alle spalle il profilo lontano del grande albergo Negresco, si incammina lentamente verso il Castello, che di sera, dalla parte del porto, le tiene compagnia dalle finestre di casa, con le luci sapienti collocate sulle rocce e fra gli alberi. Penelope era uscita puntuale per recarsi alla Cappella italiana di piazza Torino, ma il portale era chiuso. Il cartello sul lato era ricoperto di sgorbi, un signore italiano passando aveva lanciato un commento quasi malevolo nei confronti del prete, che pare mancasse da quasi tre mesi. Quell’uomo andava di fretta, con la moglie e gli amici, e Penelope non aveva potuto indagare come avrebbe voluto. Così non le era rimasto che scendere al mare, attraverso il dedalo semideserto della Vecchia Nizza. A gennaio non ci sono quasi turisti, i negozi approfittano del periodo di calma e le saracinesche sono tutte abbassate; anche in centro la mattina festiva trattiene la gente nelle case. Solo lungo il mare, sulla passeggiata, con il sole che fa capolino, c’è un discreto viavai. Fra i molti che stentano, si notano alcuni virtuosi mentre volteggiano su pattini e roller, i ciclisti pedalano all’interno del loro tracciato, i pedoni restano la maggioranza. Durante il cammino, per una pausa, qualcuno si siede sui rari muretti, oppure si appoggia alla ringhiera azzurre che separa la passeggiata dalla spiaggia sassosa, profonda e lunghissima, e nell’ultimo tratto in salita verso il Castello, molto bassa rispetto alla strada. Penelope è stanca, prima di iniziare a salire vorrebbe sedersi anche lei, e anche comoda; fino a due o tre anni prima esistevano decine di comodissime seggiole con braccioli a formare una fila continua per tutta la baia, come un largo nastro di un azzurro vivace che donava allegria. Pochissime erano fissate al terreno, o legate fra loro, la gente poteva spostarle a suo piacimento, e poi, rispettando l’avviso, rimetterle a posto. Era stata un’iniziativa ammirevole, però i soliti vandali e gli aggiottatori notturni avevano compiuto la strage, col bel risultato che le poche sedie rimaste non erano state riparate e tanto meno sostituite. Così non restavano che le panchine, piazzate numerose rasente alle macchine in corsa, davvero perfette per avvelenare i polmoni; in alternativa le poche ubicate fronte mare, nel tratto fra i giardini e l’edificio caratteristico dell’Operà. Da lontano Penelope nota che l’ultima è semivuota, le sembra incredibile avere tanta fortuna e accelera il passo, osservando la gente che procede in senso contrario, che nessuno gliela possa occupare! E’ la panchina migliore, in un angolo quasi appartato, con a fianco bellissime palme ed il mare vicino che copre il frastuono delle macchine in corsa. Ma nessuno la occupa, qualcuno ci passa davanti, sosta indeciso e prosegue, piuttosto si siede sulla parte posteriore di quelle che seguono, accontentandosi di guardare la strada ed il traffico. Penelope quindi raggiunge il suo intento, è soddisfattissima, ha mezz’ora abbondante di tempo da passare seduta a contemplare la distesa del mare, a godere del calore del sole che sul mezzogiorno diventa più intenso: col vento placato sente bisogno di aprire il piumino, di appoggiarlo alle spalle, di porgere il viso alla calda carezza che in inverno è un regalo insperato. La panchina di legno è divisa in due da un bracciolo, Penelope appoggia le sue cose sul pezzo rimanente della prima metà, così come ha fatto l’altra signora seduta alla destra, e che a fianco, sulla sua sinistra, ha anche un carrello, di quelli che servono a trasportare la spesa. Regnano pace e silenzio, la signora seduta non è un’impicciona, anzi, tiene la testa quasi sempre girata dalla parte opposta alla sua, forse aspetta qualcuno. Penelope osserva i capelli tagliati all’altezza del collo, in un regolare caschetto più argenteo che bruno. Una mano magrissima si infila nervosa a pettinare le ciocche scompigliate dalle rare folate del vento,che alleviano il dolce fastidio di un caldo perfino eccessivo. Penelope distoglie lo sguardo, depone gli occhiali, vuole prendere il sole anche intorno alla zona degli occhi: sembrerebbero ancora più stanchi al centro di un bianco malato. La ragazza si sta crogiolando, il respiro si placa, un senso di calma le entra nel corpo, il paille nerissimo dei pantaloni imprigiona e trasmette calore, le dita si stirano e la testa reclamerebbe uno schienale più alto; aahh…non si è mai contenti!.. La panca non è un lettino da sole!…Occorre soltanto sedersi in modo diverso, un pochino di lato…Penelope si gira, impercettibilmente, la donna al suo fianco si gira anche lei, è evidente che non vuole guardarla, non vuol condividere una semplice gioia, anche senza parlare: basterebbe un sorriso di complicità. Penelope si chiede perché quella donna si trovi tanto a disagio… è quasi normale, quando si occupa insieme un posto a sedere, scambiarsi un saluto, un cenno, lei voleva già farlo appena arrivata, ma l’altra restava girata…Oh, bè, che s’arrangi, si vede che ha dei problemi, forse peggiori dei suoi! Inoltre Penelope con il sole, il canto del mare, dentro di sè si diverte a scherzare, anche in rima, così non avverte eccessivamente la solitudine: ad esempio, in questo momento è come se si sentisse un pezzo di pasta, piombato con gli altri dentro una pentola, sballottato dal bollore dell’acqua, che unisce e stordisce, prima che tutti i pezzi ormai cotti siano mangiati dall’Orco che li rimescola, il Tempo Cattivo. Con la coda dell’occhio, Penelope osserva la donna… si è mossa, ha aperto la borsa stracolma, un sacchettino di carta è appoggiato sopra un golf piegato con cura. La donna richiude la borsa ed estrae un croissant dal sacchetto, con delicatezza, lo tiene a due mani, e comincia a mangiarlo. Adesso il profilo è quasi tutto visibile, la donna si imbocca e lascia che ogni boccone si sciolga, quel tanto che basta per deglutirlo; le mancano i denti, dev’essere quello il motivo per cui si nega alla vista… ma non solo quello. Penelope ad un tratto capisce che quella persona non è come le altre, in quel carrellino non tiene una spesa altamente improbabile in un giorno festivo, ma tutte le cose di sua proprietà. La donna è vestita con molto buon gusto, con scarpe sportive marroni, di una tinta calda, come anche il giaccone di pelle, imbottito; i calzoni sono di un verde spento, uguali alla borsa di tela, dai profili marroni, ed il tutto, nonostante la cura con cui è abbinato, è molto logoro, ma pulitissimo. La donna continua a portarsi i bocconi alla bocca, li succhia con metodo con le guance scavate e le labbra ritratte, ha una grazia istintiva nel volto, ed anche nel movimento che compie col braccio ogni volta che solleva la mano. A pasto quasi ultimato le cade sul grembo una briciola, grossa, la donna la cerca, la trova, poi vede un piccione che saltella ai suoi piedi e la divide a metà; ed in quel momento, per un attimo, Penelope incrocia uno sguardo schivo, dolcissimo, quasi fiero, di una riservatezza che non chiede pietà. Certamente non quella della gente che passa e non vuole condividere neppure un anonimo posto in panchina; Penelope adesso si trova in grande imbarazzo, vorrebbe davvero parlare alla donna, e non del bel tempo… però non conosce abbastanza la lingua, non per formulare e soprattutto rispondere ad espressioni che richiederebbero una grande prontezza. Vorrebbe aiutare quella persona, così come lei ha diviso la briciola con quell’uccellino, magari allungarle dei soldi, ma non sa se sia il caso, teme quasi di offenderla. La signora adesso si porta una mano sugli occhi, a difenderli dalla luce intensissima, il pasto deve averle restituito un po’ più di energia. Guarda avanti, verso il mare, ed accenna a un sorriso, perduta dietro a chissà quali pensieri. La mezz’ora è trascorsa da un pezzo, Penelope si alza, la signora continua a ignorarla, ostinata… la ragazza prosegue per la salita e si gira più volte a guardare la donna che rimane seduta da sola, si riduce a un puntino lontano, poi la curva le impedisce la vista… La mattina seguente, nella zona in cui abita, in un giorno feriale, col carrello ricolmo della spesa già fatta, Penelope scorge sul marciapiede un cane minuscolo, un bel bastardino dagli occhi espressivi; ha vicino un berretto appoggiato sul marciapiede, la segue con gli occhi, supplichevole, e dietro, addossato ad un muro, un uomo lo sta sorvegliando. Penelope passa oltre, poi ripensa alla donna in panchina, allora si ferma e getta alcune monete dentro il berretto. Il cagnolino la osserva, attentissimo, quasi fosse un contabile in grado di riconoscere l’esatto valore delle monetine; il suo padrone, mentre ringrazia con ostentazione, si china rapido a raccattare la carità, onde lasciare il berretto vuoto per i passanti sentimentali…Penelope è costretta ad ammettere che è soltanto riuscita a versare il suo obolo ad un mendicante qualsiasi, e riprende a pensare alla mesta e solitaria signora seduta in panchina, senza copioni, senza cagnetti dagli occhi espressivi… Penelope china la testa: per quanto il cruccio e la rabbia la rodano, resta un problema troppo al di sopra della portata di un individuo e del buon cuore di pochi altri! Dentro i confini del qualunquismo, del perbenismo, non si comunica con chi è in panchina, con chi è da solo, e si permette di protestare, di dar fastidio… quasi dovunque, è disdicevole, contro le regole. E’ un ritornello che la ragazza conosce bene: da che ha preteso di scavalcare qualche paletto, da troppi anni anche Penelope lo sperimenta sulla propria pelle quasi ogni giorno.